Goldman: è la società a creare il crimine
« Nonostante le nostre vantate riforme, i grandi cambiamenti sociali e le scoperte di vasta portata, gli esseri umani continuano a essere segregati nel peggiore degli inferni, dove sono umiliati, degradati e torturati, e tutto questo affinché la società sia “protetta” dai fantasmi che essa stessa ha creato ».
« La prigione protezione sociale? Quale mente perversa ha mai concepito un’idea del genere? Tanto vale dire che la salute può essere promossa diffondendo il contagio ».
Le due affermazioni sono frutto del pensiero [1] di Emma Goldman, anarchica americana d’origine russa vissuta a cavallo tra fine 800 ed inizio 900.
« La legge impartisce la punizione non semplicemente per infliggere dolore al colpevole, ma anche per incutere paura negli altri [e] maggiore è la paura che incute la punizione, più efficace è la sua finalità preventiva », spiega.
La Goldman però denuncia come, nonostante le « spese inaudite [che] hanno il solo scopo di mantenere in gabbia come bestie feroci enorme masse di esseri umani », « la criminalità è in aumento ». Il carcere, quindi, è dimostrato, secondo l’autrice, è « un totale fallimento sociale », tanto da indurre a domandarsi « se valga la pena che continui a esistere ».
Il carcere è inutile, cioè, perché non ha alcuna funzione né di prevenzione, né di dissuasione.
A sostegno di tale tesi, Goldman cita lo scrittore Havelock Ellis che ha suddiviso il crimine in quattro tipi: il crimine politico, quello passionale, quello per follia e quello occasionale. Se « il criminale politico del nostro tempo o luogo potrebbe diventare l’eroe, il martire o il santo di domani », negli altri casi il crimine è guidato da « una forza irresistibile, che non lascia altre vie di scampo a chi la subisce ».
Emma Goldman: il timore della punizione non previene il crimine
Le conclusioni di Emma Goldman sono quasi ovvie: « questa forza terrificante è radicata nella nostra crudele organizzazione sociale ed economica »; anche le eventuali « tendenze criminali innate (…) trovano terreno fertile nel nostro ambiente sociale ». A conferma dell’ipotesi, giunge il pensiero di Alexandre Lacassagne, criminologo francese contemporaneo della Goldman: « l’ambiente sociale è il terreno di cultura della criminalità – sostiene –. Il criminale è un microbo, un elemento che acquista importanza solo quando trova il modo di fermentare; ogni società ha i criminali che si merita ».
In altre parole, « nove reati su dieci hanno come cause dirette o indirette le nostre diseguaglianze economiche e sociali, il nostro spietato sistema di rapina e sfruttamento ».
Emma Goldman: come battere il cancro del crimine
La soluzione di Goldman è conseguente: « solo la riorganizzazione totale della società libererà gli uomini dal cancro del crimine ». Certo un obiettivo non facile da raggiungere: « le istituzioni sono difficili da cambiare. Sono fredde, impenetrabili e crudeli ». Ma Emma Goldman fa affidamento nella « opinione pubblica »: « quando la coscienza sociale si ravviverà, sarà possibile affrancare le vittime della prigione dalla brutalità di direttori, delle guardie e custodi del carcere ».
Nel frattempo, « la cosa importante è pretendere che il detenuto abbia il diritto di lavorare in prigione e che sia retribuito in modo che possa mettere da parte qualcosa per il giorno del suo rilascio, per l’inizio della sua nuova vita ». Infatti, « la vita in carcere li trasforma in esseri antisociali, e il fatto che, una volta fuori dal carcere, si trovino di fronte porte sbarrate non allevia di certo il loro rancore ».
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Fonti e Note:
[1] Emma Goldman (1869 – 1940), “Le prigioni: un criminale sociale e un fallimento” (1917).
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