Cosa ci dovrebbe aver insegnato lo ‘Stanford Prison Experiment’
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Lo Stanford Prison Experiment, il famoso esperimento di psicologia sociale condotto nel 1971 dallo psicologo Philip Zimbardo, è ancora oggi un monito inquietante su cosa accade quando si concede potere senza controllo. A distanza di oltre cinquant’anni, il suo messaggio resta più che mai attuale.
Zimbardo voleva capire come le persone reagissero quando venivano assegnate, per puro caso, a ruoli di prigionieri o guardie. Per farlo, selezionò 18 studenti universitari tramite un annuncio di lavoro che offriva 15 dollari al giorno. I partecipanti furono divisi casualmente: alcuni divennero “prigionieri”, altri “guardie”. L’esperimento avrebbe dovuto durare due settimane, ma fu interrotto molto prima. Il motivo? La situazione era precipitata in un vortice di violenza e abuso di potere.
Nonostante le critiche ricevute, questo studio ha lasciato un segno indelebile nella ricerca psicologica.
«L’esperimento di Zimbardo ha dimostrato come variabili situazionali come i ruoli sociali possano prevalere sulla predisposizione individuale per generare comportamenti estremi. Lo studio ha fatto luce su come mettere le persone in posizioni di potere senza supervisione possa portare all’abuso di autorità» [1].
Carceri: La parola agli psicologi
Questa tragica dinamica si ripete anche nelle carceri reali, dove i detenuti, privati di ogni diritto e dignità, finiscono per perdere sé stessi.
La prigione può portare a una «perdita della propria individualità», distruggendo l’autostima e l’identità personale del detenuto [2].
Ma il danno non si ferma qui. L’ambiente carcerario può provocare sofferenze psicologiche devastanti: «Crisi di panico, disturbo di ansia generalizzata, agitazione psicomotoria, crisi confusionali, anedonia, disturbi dell’adattamento di matrice ansiosa o depressiva, ma anche eventi deliranti e psicotici» [3].
Non si tratta solo di sofferenza individuale: questa oppressione si ripercuote sull’intera società. Un sistema penitenziario che si concentra sulla punizione anziché sulla riabilitazione non fa altro che alimentare rabbia e risentimento. La deumanizzazione, definita come «la negazione dell’umanità altrui», può contribuire a questa percezione distorta [4].
E non sono solo i detenuti a soffrirne. Anche le guardie carcerarie diventano vittime di un sistema malato, che le priva di ogni empatia. Lo psicologo Herbert Kelman avvertì: «Anche chi perpetra l’aggressione diviene deumanizzato, non possiede più la capacità di agire come un essere morale perché privato della capacità di provare compassione ed empatia nei confronti delle vittime» [4] [5].
E mentre le guardie vengono trasformate in strumenti freddi e insensibili, i prigionieri sono costretti a vivere in un inferno senza speranza.
«La detenzione in un ambiente oppressivo può compromettere la capacità dei detenuti di relazionarsi in modo sano con gli altri, rendendo difficile l’adattamento alle norme sociali e lavorative una volta rilasciati» [3]. La realtà è spietata: se il carcere non offre possibilità di riscatto, i detenuti non possono far altro che identificarsi con il ruolo di criminali. «La mancanza di opportunità di crescita e riscatto all’interno del carcere può portare i detenuti a identificarsi con il ruolo di “criminale”, limitando le prospettive di reintegrazione sociale» [6].
In sintesi, le prigioni disumane non solo distruggono chi vi è rinchiuso, ma creano una società più insicura, spingendo molti ex detenuti a ricadere nel crimine. È ora di aprire gli occhi: un sistema penitenziario giusto non è solo una questione di diritti umani, ma una necessità per il bene di tutti.
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Credits: Foto di Pablo Padilla su Unsplash
Fonti e Note:
[1] Zimbardo, “The Stanford Prison Experiment”.
[2] It.sainte-anastasie.org, “Gli effetti psicologici dell’incarcerazione cosa succede nelle menti dei detenuti?”.
[3] State of Mind, 26 luglio 2023, Marca Rebecca Farsi, “L’individuo nel contesto carcerario: effetti psicologici della detenzione”.
[4] PsicologiNews, 19 luglio 1921, Letizia Papa, “Deumanizzazione: quando l’umanità viene negata”.
[5] Herbert Kelman, “Violence without moral restraint: Reflections on the dehumanization of victims and victimizers. Journal of Social Issues”. 1973;29 (4) :25-61. [scarica il PDF da qui, in ENG]
[6] Ignotus, “Deumanizzazione e stigmatizzazione: quando l’altro vale meno di noi”.
Il problema più grosso è che si vuole imporre un sistema ad una massa di individui che per definizione sono diversi. La maggior parte degli individui se ascoltati ed aiutati possono essere reintegrati in società. Poi c’è una minoranza dei casi che non posso esser riabilitati, ma si parla di una percentuale bassa. Di conseguenza se le carceri avranno una declinazione più rieducazione, i frutti ne si potranno raccogliere, ma finché la massa non si preoccupa di questi temi che riguardano tutti, e di conseguenza non creano pressioni politiche per porre rimedio a situazioni di disagio e malessere. La politica continuerà ad ignorare gli ultimi degli ultimi.