Dalla crisi alla cura superando il capitalismo

Viviamo in un’epoca in cui la parola crisi è diventata onnipresente. Economica, ecologica, sociale: la crisi sembra essere ovunque. Ma più che un’eccezione, essa rappresenta una condizione strutturale del mondo in cui viviamo. Non si tratta di un accidente storico, ma di una conseguenza diretta del modello economico che domina il pianeta: il capitalismo.
Il capitalismo e la produzione della crisi
Il capitalismo è un sistema economico fondato sull’accumulazione infinita di profitto (Marx, 1867). Ma la crescita infinita in un pianeta finito è una contraddizione insanabile (Georgescu-Roegen, 1971). Per sopravvivere, il capitalismo deve continuamente trasformare le condizioni della produzione e della vita, creando squilibri e instabilità.
La crisi ecologica è una delle sue manifestazioni più evidenti. Il modello capitalistico si basa su un prelievo incessante di risorse e su una produzione di scarti superiore alla capacità rigenerativa del pianeta (Rockström et al., 2009). Le emissioni di CO₂ e il riscaldamento globale sono dirette conseguenze di questo sistema economico (IPCC, 2023).
Anche la crisi economica è strutturale: la competizione sfrenata porta alla precarizzazione del lavoro e all’accumulazione della ricchezza nelle mani di pochi (Piketty, 2013). Secondo dati Oxfam (2024) [1], il divario tra ricchi e poveri è in costante aumento, con l’1% più ricco che possiede più del 50% della ricchezza mondiale.
Ma il capitalismo non distrugge solo l’ambiente e le condizioni materiali di sussistenza: esso mina alla base anche i legami sociali e le comunità. La sua logica individualistica e competitiva dissolve le strutture collettive, trasformando ogni relazione in una transazione economica. Il lavoro precario e la disuguaglianza erodono la fiducia e la solidarietà sociale, aumentando l’isolamento e la frammentazione della società (Standing, 2011). Allo stesso tempo, il consumo diventa un surrogato della socialità, un modo per colmare il vuoto relazionale prodotto dalla mercificazione della vita (Bauman, 2000).
Questa crisi sociale si manifesta anche nella crescente alienazione tra gli esseri umani e tra l’uomo e la natura. L’urbanizzazione forzata, la dissoluzione delle economie locali e l’omologazione culturale spezzano i legami con il territorio e con le altre specie viventi, rafforzando l’idea di una separazione radicale tra umano e non-umano.
In questo senso, la crisi sociale, ecologica ed economica non sono fenomeni distinti, ma aspetti di un’unica crisi sistemica, generata da un modello di produzione che mercifica ogni aspetto dell’esistenza.
Autodeterminazione e libertà: il capitalismo la nega?
Il capitalismo si presenta come il sistema della libertà individuale, ma di quale libertà parliamo? Se l’individuo è costretto a vendere il proprio tempo per sopravvivere, è davvero libero? Marx descriveva questa condizione come alienazione, ovvero la perdita di controllo del lavoratore sui mezzi di produzione e sulla propria vita (Marx, 1844).
Il neoliberismo, che oggi domina l’economia globale, ha ulteriormente esasperato questa condizione, imponendo un modello in cui il mercato determina ogni aspetto della vita (Harvey, 2005). Secondo Byung-Chul Han (2015), nel capitalismo contemporaneo l’individuo è spinto a interiorizzare la logica della competizione, trasformandosi in un imprenditore di sé stesso e auto-sfruttandosi.
È un male? Sì, perché l’autodeterminazione non è un capriccio individuale, ma una necessità per una vita autenticamente umana. Essere liberi di determinare il proprio destino significa poter scegliere senza vincoli imposti dalla necessità economica o dal potere di pochi (Sen, 1999).
Ripensare le relazioni per superare la crisi
Se vogliamo davvero superare la crisi, dobbiamo ripensare il nostro modo di vivere e di relazionarci. Ma attenzione: la soluzione non è rifugiarsi in stili di vita individuali o in piccole comunità autogestite. Queste possono essere esperienze interessanti, ma restano insignificanti se non accompagnate da un cambiamento strutturale.
Il punto decisivo è il sistema economico. Solo trasformando i rapporti di produzione possiamo costruire un nuovo modo di vivere, in cui la relazione tra gli esseri umani e con la natura non sia più basata sullo sfruttamento, ma sulla cooperazione e sulla cura reciproca (Bookchin, 1986).
La crisi non è una condanna inevitabile. È il segnale che il sistema in cui viviamo è giunto al limite della sua sostenibilità. Riconoscere questo significa aprire lo spazio per immaginare e costruire qualcosa di diverso.
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Fonti e Note:
Credits: Foto di Max Böhme su Unsplash
[1] Oxfam Italia, gennaio 2024, “Diseguaglianza, il potere al servizio di pochi”.
Bibliografia
- Bauman, Z. (2000). Liquid Modernity. Polity Press.
- Bookchin, M. (1986). The Ecology of Freedom: The Emergence and Dissolution of Hierarchy.
- Byung-Chul Han (2015). La società della stanchezza.
- Georgescu-Roegen, N. (1971). The Entropy Law and the Economic Process.
- Harvey, D. (2005). A Brief History of Neoliberalism.
- IPCC (2023). Sixth Assessment Report.
- Marx, K. (1844). Economic and Philosophic Manuscripts of 1844.
- Marx, K. (1867). Das Kapital.
- Piketty, T. (2013). Le capital au XXIe siècle.
- Rockström, J., et al. (2009). Planetary Boundaries: Exploring the Safe Operating Space for Humanity.
- Sen, A. (1999). Development as Freedom.
- Standing, G. (2011). The Precariat: The New Dangerous Class. Bloomsbury Academic.
Articolo scritto integralmente dall’IA in risposta ad alcune mie domande.
Un mondo dove il capitalismo e l’economia si sostituiscono allo Stato non puo che essere un mondo profondamente ingiusto e diseguale