Galline in gabbia, governo in fuga

Dazi? Decreto sicurezza? Guerra in Ucraina? Genocidio in Palestina? No, lo scorso giovedì il Senato ha parlato di galline. Proprio così: galline.
E a portare la questione al centro del dibattito non è stato un ambientalista improvvisato, ma il senatore altoatesino Luigi Spagnolli (SVP). Uno che la dignità animale la prende sul serio.
Con l’interrogazione n. 3-01802 al ministro della Salute, Spagnolli ha chiesto conto di una vergogna tutta italiana: «il 35% delle galline ovaiole vive ancora in gabbia. Stiamo parlando di 16 milioni di animali stipati in capannoni senza luce, con appena 750 cm² a disposizione. Poco più di un foglio A4», per campare una vita intera.
E chi pensa che si parli solo di “polli”, si sbaglia. Spagnolli è stato chiaro: «non solo benessere animale, ma anche qualità del prodotto: le galline forniscono uova e carne».
E infatti, i numeri parlano da soli: il “gallus gallus domesticus” – così lo chiama il senatore con un pizzico d’ironia – è l’animale più diffuso del pianeta tra le specie di taglia media o grande. Le stime vanno dai 20 ai 100 miliardi di esemplari.
Gabbie = stress, malattie, cannibalismo. Ma il profitto vince
Le galline in gabbia non stanno bene. Gli studi lo confermano: «stress cronico, disturbi comportamentali, patologie, persino cannibalismo», spiega il senatore Spagnolli all’Aula. Ma per alcuni allevatori, il guadagno vale più di tutto questo. Rinchiudere animali per vendere uova a basso costo è ancora pratica comune. Una vergogna, nel 2025.
Il senatore ha rivelato che «l’etichettatura obbligatoria prevista dalla normativa europea sulle uova fresche prodotte nell’Unione europea ha contribuito a ridurre molto il consumo di uova da galline allevate in gabbia». Tuttavia, residua un problema di trasparenza che non è da poco: «Ci sono però le uova impiegate nei prodotti trasformati (pasta, dolci, maionese) che non sono soggette ad alcun obbligo di tracciabilità rispetto al metodo di allevamento. Il consumatore, quindi, non sa se compra prodotti fatti con uova di gallina in gabbia o meno».
Una soluzione facile ci sarebbe, quindi. Senza neppure vietare da subito le gabbie, basterebbe un po’ di trasparenza: indicare in etichetta, per ogni prodotto trasformato (pasta, dolci, maionese), se le uova usate provengono da allevamenti in gabbia. Perché oggi questa informazione manca. E il consumatore – anche quello attento – resta all’oscuro. Come se il diritto di sapere fosse un lusso.
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Il ministro Schillaci? Fa il furbo e guarda altrove
E qui entra in scena il ministro della Salute, Orazio Schillaci. A rispondere all’interrogazione di Spagnolli non ha fatto altro che scaricare la colpa sulla Commissione europea. Secondo lui, Bruxelles sta ancora «valutando». Il benessere delle galline può aspettare, perché «serve equilibrio con gli impatti socioeconomici».
Tradotto: togliere le gabbie costa. Servono più spazi, più personale, più capannoni. Meglio rimandare. Magari all’infinito.
Una difesa così goffa che pare scritta da un ufficio stampa dell’industria avicola. Non da un ministro della Salute.
E Spagnolli, che in Senato non si fa intimidire, ha replicato con una stoccata: «Non possiamo pensare che la qualità delle uova debba risentire ancora per decenni del fatto che costa troppo fare allevamenti senza gabbie».
L’Europa? Qualcuno si muove. L’Italia, invece, resta ferma.
E dire che l’Europa aveva preso impegni. L’iniziativa “End the Cage Age” [2], firmata da 1,4 milioni di cittadini, aveva spinto la Commissione a promettere – era il 2021 – «l’addio graduale alle gabbie entro il 2027».
Eppure, da allora, nessuna legge è stata approvata.
Altri Paesi, però, non sono rimasti a guardare: Lussemburgo, Austria, Francia, Repubblica Ceca, Slovenia, Germania e Danimarca si stanno già attrezzando con leggi proprie. L’Italia? Fa spallucce. Aspetta “le direttive”. Così può continuare a non fare nulla, ma con eleganza istituzionale.
Consumatori, aprite gli occhi: boicottate le gabbie
Chi può cambiare le cose, a questo punto, siamo noi. Chi compra, chi sceglie. Basta evitare di acquistare uova allevate in gabba e i prodotti industriali che contengono derivati dalle uova, poiché sicuramente provenienti da allevamento in gabbia. E pretendere etichette chiare, trasparenti, leggibili.
Perché ogni volta che compriamo una maionese qualunque, potremmo star pagando anche il prezzo della sofferenza animale.
E quello, nessun risparmio al supermercato potrà mai giustificarlo.
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Fonti e Note:
Credits: Foto di Danielle Suijkerbuijk su Unsplash
[1] Senato, Interrogazione n. 3-01802. Il video dell’annuncio sulla Web TV del Senato.
[2] Unione Europea ICE – “End the Cage Age – Submission and examination” –
«L’iniziativa è stata presentata alla Commissione il 2 ottobre 2020, dopo aver raccolto 1.397.113 dichiarazioni di sostegno. Nella sua risposta all’ICE, la Commissione ha comunicato la sua intenzione di presentare una proposta legislativa, entro la fine del 2023, per eliminare gradualmente e infine vietare l’uso di gabbie per tutti gli animali menzionati nell’ICE, a condizioni da stabilire sulla base dei pareri dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) e dei risultati di una valutazione d’impatto e di una consultazione pubblica. Questa revisione si baserà sulle ultime prove scientifiche e terrà conto dell’impatto socioeconomico sugli agricoltori e sulla catena agroalimentare, fornendo sostegno e periodi e percorsi di transizione».
Acquisire consapevolezza sull’importanza di acquistare uova di galline non in gabbia è fondamentale per il benessere degli animali e per la nostra salute. Le galline allevate in gabbia vivono in condizioni di estrema sofferenza, che si ripercuotono sul loro benessere fisico e psicologico. Questa sofferenza si riflette anche sulla qualità dei prodotti che consumiamo, influenzando la nostra salute. È essenziale pretendere che sugli scaffali siano disponibili uova biologiche e provenienti da allevamenti che rispettano il benessere degli animali. Se questo non accade, dobbiamo fare una scelta responsabile e rifiutare l’acquisto di uova provenienti da allevamenti intensivi.