Le “zone rosse” di Piantedosi: sicurezza o controllo sociale?
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Ha suscitato scalpore una recente direttiva del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi (tecnico politicamente vicino alla Lega), con cui si istituirebbero le cosiddette “zone rosse”, ovvero aree urbane a ingresso limitato per determinate categorie di persone.
L’analisi sociologica
Sebastiano Citroni, professore associato di Sociologia all’Università degli Studi dell’Insubria, intervistato da Osservatorio Repressione [1], ha definito un’illusione l’idea di creare «recinti urbani relativamente sicuri perché presidiati dalle forze dell’ordine». «Per alcuni – spiega – la loro presenza tranquillizza, per altri è una minaccia. L’ostentazione della forza può generare tensione e il ricorso a questi provvedimenti emergenziali conferma l’esistenza di un pericolo straordinario».
Secondo Citroni, tali misure non risolvono i problemi, ma li spostano: «Vietare l’accesso agli spazi pubblici a soggetti ritenuti minacciosi significa semplicemente obbligarli a spostarsi altrove».
Piuttosto che restringere le libertà, Citroni propone di affrontare le radici dell’insicurezza percepita, individuandole nella crescente disuguaglianza e nella perdita del senso di appartenenza alla società. A ciò si aggiungerebbe il ruolo negativo dei media, con una comunicazione spesso sensazionalistica, e delle forze politiche, che alimentano paure e individuano capri espiatori per guadagno elettorale.
La lettura politica
Ancora più critica l’analisi di Vincenzo Scalia, pubblicata su Sinistra Sindacale [2].
Secondo Scalia, la direttiva Piantedosi mira a trasformare le città in spazi di consumo, dove la permanenza è consentita solo per il tempo necessario a fare acquisti: «Si può prendere un hamburger al McDonald’s, visitare i negozi delle catene internazionali, ma poi bisogna andarsene».
Chi non rientra in questa logica – nomadi, migranti, senzatetto, sex workers, attivisti politici – deve essere rimosso, perché considerato antiestetico, disfunzionale e potenzialmente molesto.
In definitiva, per Scalia, si tratta di una direttiva che viola apertamente le libertà civili.
‘Zone Rosse’ in continuità con il passato
Va però sottolineato che il provvedimento di Piantedosi non introduce strumenti nuovi, ma si basa su normative già esistenti.
Tra queste:
- L’articolo 2 del Testo Unico di Pubblica Sicurezza (Regio Decreto. n. 773/1931), che prevede il foglio di via obbligatorio, strumento di epoca fascista.
- Il “Daspo Urbano” (Decreto Legge n. 14/2017), introdotto dal governo Gentiloni (PD) su proposta del ministro dell’Interno Marco Minniti (PD), con l’appoggio del ministro della Giustizia Andrea Orlando (PD) e del ministro per gli Affari Regionali Enrico Costa (ex Forza Italia).
Queste misure sono state applicate in diverse città, tra cui Roma, dove l’allora sindaca Virginia Raggi (M5S) le utilizzò per allontanare dai luoghi pubblici anche chi semplicemente sedeva su un monumento, calpestava le aiuole o liberava un cane dal guinzaglio nei parchi [3].
Una contestazione strategica
Il vero nodo della questione non è solo chi applichi questi strumenti repressivi, ma l’esistenza stessa di un apparato normativo che li consente.
Se si vuole contrastare questa deriva, la contestazione dovrebbe concentrarsi sulle leggi che rendono possibile la “giustizia preventiva” e su chi, nel corso degli anni, ne ha permesso l’adozione.
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Fonti e Note:
[1] Osservatorio Repressione, 12 febbraio 2025, “Zone rosse e sicurezza”.
[2] Sinistra Sindacale, 19 gennaio 2025, Vincenzo Scalia, “Zone rosse…di vergogna incostituzionale”.
[3] Osservatorio Repressione, 31 dicembre 2024, “Le ‘zone rosse’ di Piantedosi”, che riporta un articolo di Giuliano Santoro da ‘il Manifesto’.
Sulle differenze tra ‘foglio di via obbligatorio’ e ‘Daspo Urbano’, bene spiega “Foglio di via e Daspo urbano – Scheda di Diritto” su Diritto.it.
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