Una società senza scuola (ufficiale pubblica) è possibile?

Secondo i dati del Ministero dell’economia e della finanza (MEF) [1], nel 2024 il ministero della “istruzione e del merito” costerà oltre 52 miliardi di euro, di cui oltre 45 per il mantenimento del personale dipendente. A queste somme si aggiungono quelle di gestione degli immobili scolastici, che sono invece a carico di province e comuni. L’università, invece, costa ulteriori 14 miliardi ai quali sempre vanno aggiunte le spese regionali di gestione delle strutture accademiche.

Una cifra enorme.

Nessuno qui nega il diritto allo studio d’ogni cittadino, per il quale l’articolo 34 della Costituzione assicura che “l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita” [ quindi solo fino alla secondaria inferiore, NdR ] e che, in ogni caso, “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.

Tuttavia occorre segnalare che, finora, poca attenzione è stata prestata all’articolo 33 della Costituzione: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione”. Tale articolo pone solo tre condizioni:

  • che le scuole private siano “senza oneri per lo Stato” (e ciò peraltro non avviene nelle scuole private “paritarie”);
  • che “è prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi”,
  • e, infine, che l’esame di Stato è obbligatorio “per l’abilitazione all’esercizio professionale”.

Se è comprensibile il terzo punto (non possiamo mettere un “bisturi” in mano ad un chirurgo non “abilitato”!), la presenza della seconda condizione – di fatto – comprime enormemente l’applicazione pratica dell’articolo 33 nella parte in cui assicura che è “libero l’insegnamento”.

Per raggiungere l’obiettivo posto dall’articolo 33, appare quindi necessario abolire la validità legale dei diplomi.

Ciò, chiaramente, aprirebbe la strada alla privatizzazione della scuola (“senza oneri per lo Stato”) almeno dalla scuola superiore di secondo grado (costituzionalmente non obbligatoria). Parallelamente, per i soli “privi di mezzi”, sarebbe offerto agli studenti un bonus scuola da spendere nelle scuole private digitali. In uno stato miniarchista, libertario, la privatizzazione dell’istruzione appare evidenziare diversi lati positivi:

  • l’aumento esponenziale del “corpo insegnante”, poiché chiunque abbia una specifica competenza e voglia di divulgarla sarebbe un docente in potenza;
  • il “cliente”, ovverosia lo studente, non sprecherebbe tempo nello studio di materie per lui di scarso interesse ma si concentrerebbe su quelle che ritenesse utili o interessanti.
  • in una sorta di formazione on demand che dura una vita, lo studente potrebbe decidere in quale tempo ( anno, giorno, orario ) richiedere la lezione e la durata del corso ( numero lezioni fruite ).

Naturalmente, lo sviluppo informatico di oggi globalizza l’istruzione. Tramite apposite piattaforme digitali, infatti, docenti e studenti di tutto il mondo si possono già mettere in contatto sulla base dei comuni interessi ( l’uno di insegnare la materia X, l’altro di volerla imparare ). Tale operazione consente da un lato una riduzione dei costi/orari di lezione e dall’altro una “redistribuzione” planetaria delle risorse economiche. Consente, altresì, il lavoro a distanza con risparmio degli spostamenti e del relativo costo ambientale e sociale.

Tali attività si può svolgere su piattaforme che renderebbero poi possibile esprimere una valutazione numerica ed argomentata della competenza ed affidabilità del docente, indispensabile per poter scegliere nel mare magnum dell’offerta globale, in assenza di titoli di studio o abilitativi legalmente validi.

Questa situazione, grosso modo, era auspicata da Ivan Illich già nel 1971 nel suo libro “Deschooling Society” (uscito in Italia solo nel 2010 col titolo “Descolarizzare la scuola, una società senza scuola è possibile?”).

All’epoca, dei personal computer, delle reti internet e delle piattaforme digitali non vi era neanche l’ombra, ovvio. Ma la sua visione guardava molto avanti!

Oggi, grazie allo sviluppo dell’informatica e delle reti internet, esistono le università telematiche e anche i Mooc – singoli corsi asincroni – offerti dalle varie università del mondo. Ma qui parliamo sempre di scuole tradizionali, sia pure con lezioni erogate digitalmente a distanza.

Invece proprio quella scuola digitale aperta e globale preannunciata da Illich può esistere, ed esiste già, per davvero.

E’ possibile infatti, anche con sole 3 euro l’ora, ad esempio iscriversi ad un corso di francese o d’inglese offerti magari da un giovane preparato camerunense o sudafricano. Esistono piattaforme, come Udemy, Gostudent, Preply, o tante altre, che pubblicano elenchi di materie di studio e di relativi insegnanti. Su Preply, per esempio, studenti e docenti interagiscono tramite chat e con delle video lezioni sincrone 1:1 ( stile Skype ) durante le quali vengono anche somministrate esercitazioni che consentono l’ascolto di audio, di video, la lettura di testi, e così via, secondo la creatività del docente e il bisogno del cliente-studente.

Può sembrare forse freddo il rapporto che s’instaura tra il precario docente e il cliente-studente. Tuttavia io credo che ciò può dipende, come nelle lezioni tradizionali frontali, dalle capacità empatiche del docente. Con il sovravvento di questa scuola 3.0, probabilmente tutti guadagnerebbero di meno ma spenderebbero di meno. Esiste, è chiaro, infatti, il problema della uberizzazione, ovvero del crollo dei redditi dei docenti locali a causa della concorrenza globale. In tal caso, l’introduzione di un integrativo reddito di base universale incondizionato sarebbe auspicabile. Tuttavia una soluzione, almeno parziale, alla uberizzazione sarebbe garantita dalla “collettivizzazione” degli strumenti di produzione del servizio, ovvero delle piattaforme che quindi dovrebbero essere di proprietà di tutti coloro che ci lavorano.

La domanda che sorge spontanea è: i quasi 900mila docenti italiani – tra “posto comune” e “sostegno” – che oggi lavorano per il Ministero dell’Istruzione che fine farebbero?

Alcuni, la maggior parte, i migliori, i più motivati, dovrebbero riciclarsi sul mercato dell’offerta globale digitale delle proprie competenze. Altri potrebbero assolvere al ruolo di tutor, ovvero di consulenti che consigliano (non impongono) i percorsi formativi e ne valutano gli avanzamenti. Altri ancora, una minoranza, ove ritenuto indispensabile (medicina, etc), resterebbero impiegati nella “abilitazione all’esercizio professionale”. Gli ultimi, infine, liberati dall’essere costretti a svolgere la professione d’insegnante non per vocazione ma solo per danaro, potrebbero dedicarsi ad attività loro più compiacenti: l’arte, lo sport, la pesca o la caccia, etc. E magari poi insegnare tali attività ai neofiti.

Questo mondo è certamente in arrivo, scriveva nel 1971 Illich. Questione solo di tempo. Occorre prepararsi.

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Fonti:

[1] MEF, “Tavola 3.1.4a – Analisi delle spese per Ministeri e categorie economiche – Previsione competenza 2024 – Legge di Bilancio”.

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Natale Salvo

Nato e cresciuto nella terra del “Gattopardo”, la Sicilia. Ha dedicato la propria esistenza all'impegno sociale. Allenatore di una squadretta di calcio di periferia, presidente del circolo di Legambiente, candidato sindaco per il Partito Umanista. Infine blogger d’inchiesta; ha pagato le sue denunce di cattiva amministrazione con una persecuzione per via giudiziaria. E' autore del libro "La rivoluzione copernicana chiamata Reddito di Base", edito da Multimage, Firenze.

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Una risposta

  1. Nuccio Viglietti ha detto:

    Di fatto lo siamo già da trentina d’anni!…!!…https://ilgattomattoquotidiano.wordpress.com/

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